Italiani vittime del Gulag. Memoria e oblio di Otello Gaggi (1896-1945)

Intervento al convegno “RIPENSANDO IL TRAUMA SOVIETICO

Socialisti e anarchici nella lotta per la libertà e i diritti umani nel XX secolo

(per il centenario dell’esecuzione dei prigionieri politici alle isole Solovki)” svoltosi il 19 dicembre 2023 presso l’UNIVERSITÀ DI TORINO

Italiani vittime del Gulag

Memoria e oblio di Otello Gaggi (1896-1945)

di Giorgio Sacchetti (Università di Firenze)

La Storia, a volte, si prende gioco del destino delle persone. Era il 31 maggio 1945 (teniamo bene a mente questa data) quando, a Sevzheldorlag [Севжелдорлаг] sulle rive della Pechora, regione di Arkhangelsk [Архангельск] (URSS), nel campo di lavori forzati per prigionieri politici, all’età di 49 anni, moriva di freddo, di stenti e di malattia l’anarchico italiano Otello Gaggi, da oltre un decennio relegato in vari siti dell’universo concentrazionario sovietico. Dal Kazakhstan ad Arkhangelsk, alla Repubblica di Komi, insomma dall’Asia all’estremo nord della Russia europea. Eppure, proprio in quegli stessi giorni, si può dire in quegli stessi momenti, l’Europa dei totalitarismi stava radicalmente cambiando fisionomia. O almeno così sembrava. Appena quattro mesi prima di questa morte, tragica ma pur sempre “insignificante” sullo scenario globale della grande Storia, la gloriosa Armata Rossa di Stalin aveva liberato, 2.500 chilometri a sud-ovest di Arkhangelsk, un altro più noto campo di concentramento, quello nazista di Auschwitz. Le immani tragedie del Novecento – secolo delle masse (delle persecuzioni di massa), ma anche “secolo delle ideologie” – avrebbero quindi proseguito il loro cammino di morte, ben oltre il 1945; continuando a irrompere con la consueta estrema violenza e con le loro funeste conseguenze nel destino delle persone comuni.

La vita di Gaggi era stata breve, intensa e avventurosa, contraddistinta da iperattivismo sociale e politico, trascorsa perennemente in fuga oppure a progettare un “altrove”. Un’incredibile altalena di emozioni aveva marcato una traiettoria di passioni incontenibili e di entusiasmi euforici, ma anche di profonde disillusioni. Già condannato per propaganda antimilitarista come soldato durante la Prima guerra mondiale; operaio metallurgico nella ferriera di San Giovanni Valdarno (in Toscana), aveva partecipato al conflitto sociale e alla guerriglia di classe del “Biennio Rosso” e, per sfuggire alle persecuzioni poliziesche e giudiziarie, dopo una condanna a 30 anni di carcere, si era trovato – già nel 1921 – a vivere la triste condizione di esule. Da rifugiato politico in Russia, paese mito della Rivoluzione proletaria, che gli si svelerà ben presto come un’immensa prigione da cui non potrà più uscire, arrestato nel 1934 come “controrivoluzionario”, finiva dunque i suoi giorni nel Gulag sovietico, sopraffatto dalla nostalgia e dalla disperazione. Il suo fu un caso di risonanza internazionale, archetipo di vittima dei totalitarismi novecenteschi, “bersaglio” di un regime di terrore che, nella sequenza parossistica ben analizzata da Hannah Arendt, colpiva insieme ai nemici reali, quelli ritenuti potenziali, oggettivi, e poi gli “autori di delitti possibili”, non risparmiando neppure amici, seguaci e “innocenti cittadini senza opinioni”.

Ripercorriamo il suo viaggio senza ritorno dall’Italia alla Russia. Nel giugno 1921, dopo un prolungato periodo di provvisorio rifugio nella Repubblica di San Marino, espatriava via mare imbarcandosi clandestinamente a Trieste insieme a un nutrito gruppo di antifascisti fuggiaschi. Prima di partire aveva rassicurato i propri familiari inviando loro una foto-cartolina, dove era ritratto seduto su una barca a remi. Sul retro aveva scritto: “Non pensate a male a mio riguardo, perché io mi trovo benissimo. Sono in attesa per imbarcarmi per raggiungere la Russia…”. Giungeva, dopo alcuni giorni di navigazione, a Odessa (Ucraina), trafficato porto cosmopolita del Mar Nero, luogo mitico del periodo rivoluzionario, città dove avrebbe risieduto fino al 1927. Nel frattempo, risultavano a suo carico un arresto subito a Baku, in data imprecisata, e una condanna a tre anni inflittagli nel novembre 1922 “per motivi politici” (in quanto coinvolto nel movimento cospirativo dei socialisti rivoluzionari nel Caucaso), con detenzione fino al 1925 nel carcere di Čeljabinsk [Челябинск], versante sudorientale degli Urali.

Dopo un primo trasferimento a Novorossiysk [Новоросси́йск], dal 1928 si stabiliva definitivamente a Mosca registrandosi, secondo una prassi consolidata, alla sede del Soccorso Rosso Internazionale [МОПР], e presentandosi al delegato del partito comunista del proprio paese per le pratiche inerenti lavoro e alloggio. Nella capitale sovietica, dove viveva con una compagna e la figlia di lei (ma dove avrebbe avuto anche una figlia naturale da un’altra relazione), svolgeva lavori avventizi: fra cui portiere d’albergo, interprete e, soprattutto, “piazzista di libri di cultura comunista”, ricevendo 75 rubli mensili di paga e avendo così l’occasione di frequentare le riunioni di partito del gruppo italiano presso il “Club internazionale” di via Petrovka. All’epoca la colonia dei rifugiati politici antifascisti italiani a Mosca era formata da alcune centinaia di persone, in massima parte comunisti, pochi i socialisti e gli anarchici.

Il Club, frequentato da Gaggi come venditore ambulante di libri, era il punto principale di osservazione del controllo ideologico poliziesco. Curatore dei fascicoli personali con informazioni biografiche e precedenti politici, era Antonio Roasio, dirigente del Partito Comunista Italiano coadiuvato dalla futura moglie, nonché sua “allieva” alla Scuola Leninista, Dina Ermini (alias Miranda Boffa) da San Giovanni Valdarno, addetta all’ufficio quadri del Comintern [Коммунистический Интернационал], anche lei rifugiata (compaesana conoscente e imparentata con Gaggi, era cognata di un cugino). Nel 1929, causa le ristrettezze economiche e le miserrime condizioni di vita, la famiglia si trovava costretta a traslocare in un’abitazione fatiscente dell’ex hotel Marsiglia. Gaggi aveva intanto commesso la grave imprudenza di tentare un contatto con l’Ambasciata italiana allo scopo di valutare le possibilità di un rimpatrio, in vista di una ipotetica revisione processuale per i fatti del 1921. Nel 1930 poi aveva messo in atto un impossibile, immaginario, piano di fuga dopo aver trovato un nuovo lavoro a Sakhalin [Сахалин] nell’estremo oriente asiatico. Intanto le autorità fasciste italiane confermavano la segnalazione dell’anarchico toscano nel “Bollettino delle Ricerche”: da arrestare in caso di rimpatrio. Si chiudeva in tal modo per lui qualsiasi possibilità di via d’uscita. E così proseguiva la sua vita grama e disperata a Mosca.

Dopo aver vivacemente manifestato, durante una riunione riservata di connazionali fuoriusciti, la sua ferma contrarietà a rinunciare alla cittadinanza italiana per chiedere invece “tutti quanti in massa” quella sovietica, il suo destino sembrava segnato. Nel 1934 i dirigenti del Partito Comunista d’Italia responsabili della Sezione quadri del Comintern lo segnalavano come dissidente “trotskista”. Nella notte del 28 dicembre del medesimo anno, il suo arresto e di altre undici persone (fra cui dieci italiani) – a seguito di un’azione poliziesca simultanea nella città di Mosca – segnava l’inizio di un terribile calvario. Ultimo viaggio dalla Lubianka al Gulag. Durante la permanenza nel carcere moscovita di Butyrskaya [Бутырская], a completa disposizione dei torturatori del primo dipartimento della polizia politica, Gaggi aveva confessato le sue presunte “colpe”: aver più volte criticato, nell’ambiente degli emigrati, la politica delle autorità sovietiche; essere stato in contatto epistolare con le organizzazioni antifasciste anarchiche di Parigi. I verbali degli interrogatori, dopo una sommaria istruttoria, erano trasmessi dal giudice istruttore a una speciale Consulta e all’NKVD [НКВД] per la sentenza. Era evidente il nesso di queste persecuzioni con i rapporti informativi raccolti, ormai da tempo, dai rappresentanti del partito italiano negli ambienti dei connazionali. Nelle schede biografiche, le famigerate “anketa”, intestate ai malcapitati pesavano i giudizi molto negativi espressi dalla sezione quadri del Comintern. Per Gaggi, con condanna a tre anni che poi sarà rinnovata, l’imputazione principale rimaneva l’appartenenza a un famigerato quanto fantomatico “gruppo Calligaris”. E lo stesso Luigi Calligaris, comunista dissidente e presunto capofila del complotto, cedeva alle torture confessando le sue frequentazioni con l’anarchico toscano e gli altri arrestati.

Sepolto vivo nell’universo concentrazionario sovietico continuava a chiedere aiuto. Nel corso del 1935 da Jarensk [Я́ренск] (Arkhangelsk) indirizzava ben dodici missive, destinatari: il Comitato di soccorso ai detenuti politici, il Comitato internazionale anarchico di Bruxelles. Oggetto del carteggio: recapito delle sottoscrizioni ricevute dall’estero per la figlia, richiesta di assistenza per la moglie, domanda di trasferimento in un campo situato al sud. Questo disperato iperattivismo sembrava preludere a nuove speranze. Che si aprivano con la guerra antifascista di Spagna. I massimi organi della CNT (Confederaciòn Nacional del Trabajo) e della milizia sul fronte d’Aragona chiedevano, infatti, ufficialmente a Stalin, ottobre 1936, che venissero lasciati partire per arruolarsi come combattenti i rivoluzionari Gaggi, Ghezzi e Sandormirski. Per l’anarchico toscano la risposta alla mobilitazione internazionale fu una nuova condanna per attività antisovietica fra i prigionieri, con il trasferimento a Semipalatinsk [Семипалатинск] nel Kazachstan orientale e la contestuale privazione del sussidio; mentre rimaneva inesaudito il desiderio di ricongiungersi con la sua compagna rinchiusa in altro campo. Da Semipalatinsk scriveva ancora a Luigi Bertoni, redattore de «Il Risveglio» di Ginevra, lettere oppure cartoline postali (una con la réclame dell’Inturist e del “Metropol”, hotel moscovita nel quale aveva lavorato). Le sue parole di commiato – datate 3 novembre 1936 – erano state: “…la vittoria definitiva sarà nostra, e da questa lontana Asia giunga il mio augurio fraterno al popolo spagnolo di un prossimo raggiungimento di una società di liberi in terra liberata…”.

Della sua perdurante prigionia però rimanevano diversi riscontri. C’era un misterioso biglietto in lingua russa, intercettato dalla polizia italiana, contenente il suo recapito “URSS, Kazachstan, Asia centrale, Semipalatinsk, fermo posta, Otello Gaggi”, spedito da San Giovanni Valdarno il 23 settembre 1937 al recapito moscovita di Dina Ermini alias Boffa.

La congiura del silenzio non poteva però durare a lungo. Nell’agosto 1944 giungeva a Togliatti, ministro senza portafogli nel nuovo gabinetto Bonomi (da poco succeduto a Badoglio), una lunga inaspettata missiva da Città del Messico. Victor Serge, già dirigente bolscevico, capo dell’opposizione trozkista internazionale, scrittore e storico di fama mondiale, si era deciso a scrivere al dirigente comunista italiano per una richiesta che, dato il periodo e gli sconvolgimenti bellici europei in atto, poteva sembrare assurda quanto bizzarra da parte del ricevente. Che fine ha fatto l’operaio anarchico Otello Gaggi di San Giovanni Valdarno già rifugiato politico in Unione Sovietica? La lettera rimaneva senza risposta, salvo essere pubblicata in vari giornali coevi sia in Europa che negli Stati Uniti (oltre trent’anni dopo sarà riproposta da “Lotta Continua”, 18 febbraio 1978). Erano gli ultimi mesi di vita del prigioniero e, dopo ben tre trasferimenti in altrettanti campi di lavoro, il 31 maggio 1945 si arrivava all’epilogo e alla morte. Ufficialmente per malattia, “pellagra” come si leggerà nel relativo certificato.

Nel dopoguerra si costituiva un Comitato Italiano per la verità sui misfatti dello stalinismo, mentre – in ambito internazionale – la stampa anarchica, quella socialista e dei movimenti della dissidenza di sinistra, continuavano la loro solitaria battaglia.

Nel 1982 Antonio Roasio faceva una tardiva pubblica ammissione di responsabilità: “La nostra colpa è di averli abbandonati, pur sapendo che erano innocenti. La nostra colpa è di non essere intervenuti dopo, nel 1945. Molti di loro erano ancora vivi, nei campi di concentramento”.

Dopo l’apertura degli archivi sovietici si veniva finalmente a conoscenza della data di morte, e si apprendeva anche della sua inutile riabilitazione, decretata il 22 agosto 1956, dal Collegio militare della corte suprema dell’URSSS, in quanto “irragionevolmente condannato per attività trotskiste rivoluzionarie”. Anche la Corte di appello di Firenze (20 novembre 1954) aveva nel frattempo revocato l’ordine di cattura dichiarando “estinti per prescrizione tutti i reati”. Alla fine degli anni Ottanta si riprendeva di nuovo a parlare del “caso”, sulla stampa locale e non solo.

Nel 1991 la “nipote russa di Otello” iniziava le sue ricerche presso gli archivi sovietici e rivolgeva un appello alla Croce Rossa di Mosca per ritrovare i parenti italiani.

Il 22 febbraio 1992 a San Giovanni Valdarno, nel corso della presentazione del volume Dialoghi del terrore di Giancarlo Lehner, organizzata nel palazzo comunale dal Movimento giovanile socialista e dal locale Circolo Rosselli, Dina Ermini vedova Roasio interveniva per difendere l’operato del partito comunista in URSS, negando qualsiasi responsabilità sua e del marito nel caso Gaggi. Posizione omertosa e reticente che sarà confermata nella sua ultima intervista sei anni dopo (“La Nazione”, 22 ottobre 1998).

Nel luglio 1992 usciva la prima edizione del libro edito da BFS di Pisa, Otello Gaggi. Vittima del fascismo e dello stalinismo (seconda edizione nel 2015).

Il 4 agosto 1992 l’ufficio ricerche della Croce Rossa Italiana inoltrava la richiesta della consorella moscovita al Comitato provinciale di Arezzo della stessa associazione allo scopo di “rintracciare i parenti del signor Gaggi” su istanza della “Signora Silianteva Tamara figlia del nominato in oggetto”.

Nonostante la “caduta del Comunismo” l’atteggiamento reticente fra gli eredi del vecchio PCI continuava. All’approssimarsi del 70° anniversario della morte il caso tornava in auge grazie anche all’avvento dei social network. Wikipedia ne riportava intanto la biografia e, nel 2010, nasceva un gruppo aperto Facebook denominato: “Un ricordo per Otello Gaggi” a cui aderivano familiari e concittadini dell’anarchico valdarnese, personalità della cultura e della politica, docenti e ricercatori universitari, militanti libertari da ogni parte del mondo…

L’11 novembre 2017 a San Giovanni Valdarno, nella parte sud della cittadina, si inaugurava con l’intervento del sindaco una via intitolata a Otello Gaggi.

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